Monte
Cengio, quota 1300m, parete sud
Aperta
dal basso da Matteo Burato il 13 ottobre 2008; pulita e risistemata
nell'estate del 2014.
Prima
ripetizione effettuata da Rasia-Burato-Florit il 18 ottobre 2008
Sviluppo:
130m
Difficoltà:
dal 5a al 6b (difficoltà obbligatoria 5c)
Roccia:
molto buona.
Materiale:
portare 12 rinvii, utili cordini o fettucce. Si consiglia l'uso di
mezze corde. La
via è protetta con spit/fix da 8 mm e qualche chiodo da roccia.
Avvicinamento:
Da
Piovene Rocchette prendere la strada statale del Costo in direzione
di Asiago. In località Campiello, deviare a sx per il Monte Cengio e
lasciare l'auto al Piazzale Principe, dove termina la strada
asfaltata.
Scendere
qualche metro lungo il sentiero di arroccamento e prima della
galleria imboccare il sentiero della Val Cengiotta, che porta in
breve tempo alla base della parete. Attaccare l'evidente placca scura
sotto al pulpito di roccia. (15 minuti ca.)
Salita:
L1:
Si sale per placca fin sotto al piccolo tetto, che viene superato
sulla sx con un passaggio di forza. Sosta su alberi. (20m, 5a-5c)
L2:
Dal terrazzo (è possibile iniziare qui la via evitando il primo
tiro) superare il breve risalto roccioso e attraversare decisamente a
sx. Superare la pancia con movimento delicato per poi obliquare a sx
verso una cengia erbosa. Sosta su masso con clessidra e spit. (30m, 5a-5c)
L3:
Continuare dritti per placche lavorate (possibile sosta intermedia per evitare l'attrito delle corde), per poi traversare a sx e
guadagnare infine una comoda cengia. Sosta su spit e chiodo a fessura.
(50m, 5b)
L4:
Tenere la dx e puntare la bella placca grigia (non farsi fuorviare
dai fix sopra alla testa che appartengono al “Gnaro del Cuco”) da
superare con un passaggio da dita. Sfruttare un piccolo terrazzino
per entrare nell'evidente diedro con passo deciso.
Seguirlo fin sotto al tetto e uscire a sx su cengia (delicato). Superare la
difficile pancia per poi guadagnare facilmente l'uscita. Sosta su
parapetto metallico della chiesetta. (30m, 6a-6b).
Discesa:
Scendere
al parcheggio adiacente la chiesetta. (2 minuti).
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L1 Superamento del tettino |
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L2 Passaggio in placca |
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L3 |
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L4 Uscita in cengia |
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L4 Splendida sequenza in diedro |
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L4_Traverso (Foto di G. Borin) |
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L3_Lungo lo spigolo (Foto di G. Borin) |
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L3_Placche compatte |
Ottobre
2008: cronaca di un'apertura
Dal
Piazzale Principe, un sinuoso sentiero si snoda a picco sulla valle e
in breve tempo porta alla base della parete. I tempi di avvicinamento
alle vie del Monte Cengio sono a dir poco "scandalosi": non
più di quindici minuti di cammino in discesa per raggiungere
l'attacco, due passi di numero per tornare al luogo dove si è
lasciata l'auto. Eppure, dal punto di vista alpinistico, il luogo non
gode di una grande frequentazione, come la tempistica potrebbe far
pensare. Nonostante la chiodatura ravvicinata e la brevità delle
vie, il tipo di roccia che presenta questo settore dell'Altopiano
obbliga ad un'arrampicata di movimento su piccoli ed inconsistenti
appigli, che premia più le doti di equilibrio che la forza bruta.
Per questo chi arrampica sul Cengio non conosce affatto che cosa
significhi "far la fila" all'attacco di una via...
È
ottobre inoltrato, il rifugio ha già chiuso i battenti da qualche
settimana e nei dintorni non si vede più anima viva. Solo qualche
volatile mi assiste mentre meticoloso preparo la mia attrezzatura e
mi avvio lungo la Val Cengiotta. All'orizzonte qualche nube potrebbe
minacciare le mie intenzioni di salita, ma per il momento il cielo
sembra essere dalla mia parte. Ancora distratto dalla metereologia
locale, arrivo alla base della via. Cordino il solito albero, passo
la corda nel gri gri modificato e attacco deciso la paretina di
calcare grigio scuro. Mi bastano tre movimenti per lasciarmi dietro
un'estate troppo complicata, complici il viaggio inaspettato in
Venezuela, la futura partenza per la Colombia e quelle situazioni
umane che solo il destino sa incrociare così spietatamente.
Arrivo
al primo spit e con una facile traversata mi porto sotto al passaggio
chiave, che supero senza troppa esitazione. Guadagno in breve il
punto di sosta, laddove qualche settimana prima mi ero fermato con
Giovanni a causa di un vento insistente.
La
placca soprastante è decisamente appoggiata e lascia intravedere
qualche punto debole, ma conosco troppo bene il Cengio per
sottovalutare questo tipo di passaggi, apparentemente facili ma
spesso e volentieri privi di appigli. Mi muovo piano, ma sicuro del
mio equilibrio, proteggendomi dove posso con chiodi a fessura di
svariata misura. Quando iniziano a scarseggiare, scendo, li
sostituisco con degli spit e poi continuo la mia salita.
La
decisione di utilizzare chiodi ad espansione, in luogo di un'apertura
in stile classico, deriva dal fatto che il magazzino di casa è pieno
zeppo di materiale in disuso dopo l'abbandono forzato dell'attività
speleologica praticata per anni. La parete del Cengio poi non è
priva di questo tipo di chiodatura; anzi, nasce negli anni '60 come
una vera e propria "palestra" di arrampicata artificiale
dove si sono sbizzarriti importanti nomi dell'alpinismo vicentino
come Bortolo Fontana , ideatori e sostenitori della cosiddetta
"salita a goccia d'acqua".
Pur
utilizzando mezzi simili, continuo a ricercare il movimento in
"libera" perchè così ho concepito questa linea fin dal
primo giorno che l'ho intravista, percorrendo il sentiero di
avvicinamento.
Arrivo,
tra un pensiero e l'altro, ad una cengia dove decido di sostare su un
albero non troppo rassicurante: dall'ultima sosta ho percorso già
una cinquantina di metri su difficoltà costanti tra il V e il V+.
Guardo l'orologio e mi accorgo che non mi restano più di due ore di
luce. Quanto basta per tentare l'ultimo tiro che so già essere il
più impegnativo, come notato dalle fotografie!
Mi
alzo delicatamente sulla placca grigia. Pianto un chiodo, lo strozzo
con un cordino e mi appendo per ricercare la posizione più comoda da
cui piazzare il prossimo spit. Terminata l'operazione, provo ad
avanzare, ma senza esito. Sono obbligato a "spittare" di
nuovo, questa volta però rimanendo in equilibrio su di una staffa,
data l'impossibilità di far entrare anche un semplice chiodo di
posizionamento. Le ripetizioni successive dichiareranno questo
passaggio come il più tecnico e obbligato della via, gradandolo
addirittura VII-.
Da
qui una radice mi permette di alzarmi e di spostarmi verso destra
sfruttando un piccolo terrazzino, fino al raggiungimento del diedro
ben visibile dalla strada. Lo supero senza troppi intoppi fino ad una
cengia su cui riesco a riposarmi un po'. Il sole è già calato e la
luce rimastami non è poi così tanta. Tuttavia decido di continuare,
anche perchè, a dividermi dall'uscita, rimane solo da risolvere un
bombè di pochi metri. Lo attacco direttamente; batto l'ennesimo spit
- ormai ho perso il conto da questa mattina!- ma non basta ancora per
saltare fuori. Poco più in alto una fessura orizzontale chiama la
mia attenzione e mi ritrovo addirittura a parlare da solo: "Ho
giusto il chiodo che fa per te!" le dico. Uno, due, tre colpi
"cantano" da manuale. Il quarto però suona a vuoto: la
mazzetta finisce direttamente, senza ostacolo alcuno, sul mio dito
anulare, togliendomi dalla bocca lunghe imprecazioni che non mi
faccio riguardo ad esternare a gran voce.
Esco,
ormai all'imbrunire, e sosto sul parapetto della chiesetta eretta in
onore dei caduti della Grande Guerra. La gioia per aver realizzato la
mia prima via su roccia è tanta. Nonostante il dito si stia
gonfiando di dolore, siedo a lungo sul ciglio della parete aspettando
che la pianura si accenda di luce. È questo, insieme al belvedere
del Monte Paù, uno dei punti panoramici dell'Altopiano che
preferisco, perchè nelle giornate terse la vista può spaziare
lontano.
Il
mio momento di contemplazione e compiacimento però è subito
interrotto dall'avvicinarsi di ombre nere che escono dalla chiesetta
e lì per lì mi spaventano anche.
È
un gruppo di suore...chissà se i dialoghi di un alpinista solitario
hanno raggiunto anche le loro orecchie in questa fredda sera di ottobre.
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