A volte sono proprio i piccoli sogni a farci sentire un po' più grandi. Anche a pochi passi da casa, su pareti dimenticate dall'alpinismo con la A maiuscola, possiamo ancora ritagliare uno spazio per vivere delle avventure autentiche. L'importante è che sia autentico il modo con cui decidiamo di relazionarci con la montagna. "Il vero alpinismo è a mani vuote" sostiene il filosofo Tomatis, dove spoglio non deve essere il nostro imbrago ma l'atteggiamento nei confronti dell'alpe. Allontanarsi quindi dalla guerra che l'uomo moderno ha dichiarato alla natura e che anche l'alpinismo classico ha in parte ereditato come retaggio di una cultura antropocentrica. "Salire...per essere e non per avere" diceva Miotti, decifrando al meglio la cesura che esiste tra un'arrampicata della "vetta a tutti i costi" e il saper apprezzare invece la bellezza e l'estetica di un gesto. Una volta spogliato l'uomo-alpinista dai suoi orpelli, ciò che rimane sono proprio due mani vuote, a cui basta un qualsiasi "pezzo" di roccia per vivere il proprio sogno alpinistico...

Gli itinerari descritti in questo blog nascono dal desiderio di rivalutare un territorio distante dai classici circuiti arrampicatori, ricercando linee estetiche laddove l'occhio di un alpinista non è facilmente portato a guardare. Pareti piccole, se confrontate ai mostri sacri delle Dolomiti o delle Alpi, ma che riescono ugualmente a regalare emozioni forti a chi intende ascoltarle. Un'arrampicata senza pretese di grandezza quindi, dove ciò che conta è stare bene all'interno di uno spazio geografico che in un modo o nell'altro riconosciamo come “nostro”.

Via El Rubio Mona


Monte Cengio, quota 1300m, parete sud


Aperta dal basso da Matteo Burato il 13 ottobre 2008; pulita e risistemata nell'estate del 2014.

Prima ripetizione effettuata da Rasia-Burato-Florit il 18 ottobre 2008

Sviluppo: 130m
Difficoltà: dal 5a al 6b (difficoltà obbligatoria 5c)
Roccia: molto buona.
Materiale: portare 12 rinvii, utili cordini o fettucce. Si consiglia l'uso di mezze corde. La via è protetta con spit/fix da 8 mm e qualche chiodo da roccia.

Avvicinamento:
Da Piovene Rocchette prendere la strada statale del Costo in direzione di Asiago. In località Campiello, deviare a sx per il Monte Cengio e lasciare l'auto al Piazzale Principe, dove termina la strada asfaltata.
Scendere qualche metro lungo il sentiero di arroccamento e prima della galleria imboccare il sentiero della Val Cengiotta, che porta in breve tempo alla base della parete. Attaccare l'evidente placca scura sotto al pulpito di roccia. (15 minuti ca.)

Salita:
L1: Si sale per placca fin sotto al piccolo tetto, che viene superato sulla sx con un passaggio di forza. Sosta su alberi. (20m, 5a-5c)
L2: Dal terrazzo (è possibile iniziare qui la via evitando il primo tiro) superare il breve risalto roccioso e attraversare decisamente a sx. Superare la pancia con movimento delicato per poi obliquare a sx verso una cengia erbosa. Sosta su masso con clessidra e spit. (30m, 5a-5c)
L3: Continuare dritti per placche lavorate (possibile sosta intermedia per evitare l'attrito delle corde), per poi traversare a sx e guadagnare infine una comoda cengia. Sosta su spit e chiodo a fessura. (50m, 5b)
L4: Tenere la dx e puntare la bella placca grigia (non farsi fuorviare dai fix sopra alla testa che appartengono al “Gnaro del Cuco”) da superare con un passaggio da dita. Sfruttare un piccolo terrazzino per entrare nell'evidente diedro con passo deciso. Seguirlo fin sotto al tetto e uscire a sx su cengia (delicato). Superare la difficile pancia per poi guadagnare facilmente l'uscita. Sosta su parapetto metallico della chiesetta. (30m, 6a-6b).

Discesa:

Scendere al parcheggio adiacente la chiesetta. (2 minuti).









L1 Superamento del tettino

L2 Passaggio in placca

L3 

L4 Uscita in cengia

L4 Splendida sequenza in diedro



L4_Traverso (Foto di G. Borin)
L3_Lungo lo spigolo (Foto di G. Borin)





L3_Placche compatte 



Ottobre 2008: cronaca di un'apertura

Dal Piazzale Principe, un sinuoso sentiero si snoda a picco sulla valle e in breve tempo porta alla base della parete. I tempi di avvicinamento alle vie del Monte Cengio sono a dir poco "scandalosi": non più di quindici minuti di cammino in discesa per raggiungere l'attacco, due passi di numero per tornare al luogo dove si è lasciata l'auto. Eppure, dal punto di vista alpinistico, il luogo non gode di una grande frequentazione, come la tempistica potrebbe far pensare. Nonostante la chiodatura ravvicinata e la brevità delle vie, il tipo di roccia che presenta questo settore dell'Altopiano obbliga ad un'arrampicata di movimento su piccoli ed inconsistenti appigli, che premia più le doti di equilibrio che la forza bruta. Per questo chi arrampica sul Cengio non conosce affatto che cosa significhi "far la fila" all'attacco di una via...

È ottobre inoltrato, il rifugio ha già chiuso i battenti da qualche settimana e nei dintorni non si vede più anima viva. Solo qualche volatile mi assiste mentre meticoloso preparo la mia attrezzatura e mi avvio lungo la Val Cengiotta. All'orizzonte qualche nube potrebbe minacciare le mie intenzioni di salita, ma per il momento il cielo sembra essere dalla mia parte. Ancora distratto dalla metereologia locale, arrivo alla base della via. Cordino il solito albero, passo la corda nel gri gri modificato e attacco deciso la paretina di calcare grigio scuro. Mi bastano tre movimenti per lasciarmi dietro un'estate troppo complicata, complici il viaggio inaspettato in Venezuela, la futura partenza per la Colombia e quelle situazioni umane che solo il destino sa incrociare così spietatamente.
Arrivo al primo spit e con una facile traversata mi porto sotto al passaggio chiave, che supero senza troppa esitazione. Guadagno in breve il punto di sosta, laddove qualche settimana prima mi ero fermato con Giovanni a causa di un vento insistente.
La placca soprastante è decisamente appoggiata e lascia intravedere qualche punto debole, ma conosco troppo bene il Cengio per sottovalutare questo tipo di passaggi, apparentemente facili ma spesso e volentieri privi di appigli. Mi muovo piano, ma sicuro del mio equilibrio, proteggendomi dove posso con chiodi a fessura di svariata misura. Quando iniziano a scarseggiare, scendo, li sostituisco con degli spit e poi continuo la mia salita.
La decisione di utilizzare chiodi ad espansione, in luogo di un'apertura in stile classico, deriva dal fatto che il magazzino di casa è pieno zeppo di materiale in disuso dopo l'abbandono forzato dell'attività speleologica praticata per anni. La parete del Cengio poi non è priva di questo tipo di chiodatura; anzi, nasce negli anni '60 come una vera e propria "palestra" di arrampicata artificiale dove si sono sbizzarriti importanti nomi dell'alpinismo vicentino come Bortolo Fontana , ideatori e sostenitori della cosiddetta "salita a goccia d'acqua".
Pur utilizzando mezzi simili, continuo a ricercare il movimento in "libera" perchè così ho concepito questa linea fin dal primo giorno che l'ho intravista, percorrendo il sentiero di avvicinamento.
Arrivo, tra un pensiero e l'altro, ad una cengia dove decido di sostare su un albero non troppo rassicurante: dall'ultima sosta ho percorso già una cinquantina di metri su difficoltà costanti tra il V e il V+. Guardo l'orologio e mi accorgo che non mi restano più di due ore di luce. Quanto basta per tentare l'ultimo tiro che so già essere il più impegnativo, come notato dalle fotografie!
Mi alzo delicatamente sulla placca grigia. Pianto un chiodo, lo strozzo con un cordino e mi appendo per ricercare la posizione più comoda da cui piazzare il prossimo spit. Terminata l'operazione, provo ad avanzare, ma senza esito. Sono obbligato a "spittare" di nuovo, questa volta però rimanendo in equilibrio su di una staffa, data l'impossibilità di far entrare anche un semplice chiodo di posizionamento. Le ripetizioni successive dichiareranno questo passaggio come il più tecnico e obbligato della via, gradandolo addirittura VII-.
Da qui una radice mi permette di alzarmi e di spostarmi verso destra sfruttando un piccolo terrazzino, fino al raggiungimento del diedro ben visibile dalla strada. Lo supero senza troppi intoppi fino ad una cengia su cui riesco a riposarmi un po'. Il sole è già calato e la luce rimastami non è poi così tanta. Tuttavia decido di continuare, anche perchè, a dividermi dall'uscita, rimane solo da risolvere un bombè di pochi metri. Lo attacco direttamente; batto l'ennesimo spit - ormai ho perso il conto da questa mattina!- ma non basta ancora per saltare fuori. Poco più in alto una fessura orizzontale chiama la mia attenzione e mi ritrovo addirittura a parlare da solo: "Ho giusto il chiodo che fa per te!" le dico. Uno, due, tre colpi "cantano" da manuale. Il quarto però suona a vuoto: la mazzetta finisce direttamente, senza ostacolo alcuno, sul mio dito anulare, togliendomi dalla bocca lunghe imprecazioni che non mi faccio riguardo ad esternare a gran voce.
Esco, ormai all'imbrunire, e sosto sul parapetto della chiesetta eretta in onore dei caduti della Grande Guerra. La gioia per aver realizzato la mia prima via su roccia è tanta. Nonostante il dito si stia gonfiando di dolore, siedo a lungo sul ciglio della parete aspettando che la pianura si accenda di luce. È questo, insieme al belvedere del Monte Paù, uno dei punti panoramici dell'Altopiano che preferisco, perchè nelle giornate terse la vista può spaziare lontano.
Il mio momento di contemplazione e compiacimento però è subito interrotto dall'avvicinarsi di ombre nere che escono dalla chiesetta e lì per lì mi spaventano anche.
È un gruppo di suore...chissà se i dialoghi di un alpinista solitario hanno raggiunto anche le loro orecchie in questa fredda sera di ottobre.         

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